per Alpe Nostra
notiziario del Club Alpino Italiano, sezione di Omegna
settembre 2018
PASSAGGIO A NORD EST
Dall'oratorio di
san Defendente al santuario del Boden, sulle tracce degli antichi pellegrini
Autunno. Giornate più brevi,
temperature miti, il bosco che pian piano inizia ad assumere i colori tenui e
variegati della stagione. Torna il momento adatto per muoverci sulla “montagna
di casa”, per sentieri più domestici e meno battuti. Andiamo quindi, ancora una
volta per la Corcera, ma questa volta in direzione nord est.
Il nostro itinerario parte da
Arzo, la più settentrionale e più alta tra le frazioni di Casale Corte Cerro,
per la precisione dalla piazzetta dell’Ariél, il cui nome dialettale ben
richiama la sua posizione arieggiata e aperta a grandi scorci panoramici. Se
abbiamo la fortuna di una giornata ventosa la vista verso sud ci mostrerà
d’infilata l’intera Corcera e buona parte de lago d’Orta fino a scorgere i
campanili di Pogno e Prerro; di fronte il versante più selvaggio del
Mergozzolo, il piano di Gravellona e Fondotoce, il golfo Borromeo chiuso dai
Pizzoni di Laveno e laggiù, contro l’orizzonte, le cime biancheggianti del
Disgrazia e del Bernina. Poco più a sinistra la cortina severa delle prime
Lepontine - Faiè, Corte Lorenzo, Teisa, Corni di Nibbio, Lesino, Proman –
dietro cui sta adagiato il parco nazionale della Valgrande. Armati di un buon
binocolo ci sarebbe da passarci la giornata.
L’oratorio seicentesco
dedicato a san Defendente – uno dei martiri della legio Tebaica fatta decimare da Diocleziano nel 303 – e a santo
Stefano protomatire, i patroni della frazione, chiude un lato della piazzetta.
Di fronte, alta tra le case antiche del villaggio, si vede svettare la torre
medievale, antica struttura con funzioni difensive e, forse, di avvistamento e segnalazione.
Muovendoci verso sud per qualche centinaio di metri, lungo viuzze che ancora
mostrano l’antico acciottolato, raggiungiamo il rio Gaggiolo, presso il quale
troviamo una cappelletta devozionale dedicata alla Vergine del Boden – in
gremio Matris sedet Sapientia Patris, recita l’inequivocabile cartiglio -
fronteggiata da una ruota da mulino che ci ricorda come l’edificio adiacente
sia stato proprio un mulino da cereali fino a quanto, a fine ‘800, una società
mineraria inglese non arrivò in zona, convinta di trovarvi dei giacimenti
auriferi. In effetti una vena di pirite fu scoperta poco lontano da qui - nella
forra del rio Inferno - e per alcuni mesi se ne tentò la coltivazione, salvo
scoprire che il costo dell’opera non avrebbe mai pareggiato i profitti.
L’impresa fu rapidamente abbandonata, ma in paese rimane il ricordo di quei
mesi in cui c’era un gran movimento di minatori che andavano a cavare il
minerale e di donne che, con le loro gerle, lo trasportavano a spalle fino a
questo mulino per essere macinato. Erano gli anni della grande corsa all’oro -
quella sì, particolarmente proficua – nel sudovest americano e così questa
nostra zona venne scherzosamente denominata “la California”.
Dopo questa piccola deviazione
riprendiamo la direzione prefissata, torniamo verso l’abitato di Arzo e lo
attraversiamo completamente, ammirando le belle case con alcuni evidenti esempi
di architettura medievale, e proseguiamo verso nord est lungo la carrozzabile
che costeggia i prati della località Lagoni, nome che deriva dalla loro
tendenza ad allagarsi nei periodi più piovosi, tanto formare nel tempo una
torbiera o lagozza. In questi terreni, nel 1956, l’archeologo dilettante Felice
Pattaroni compì alcune ricerche scoprendovi i resti di un insediamento
attribuibile all’era neolitica. La strada forma un tornante e proprio al suo
vertice inizia il sentiero, ben percorribile grazie alla segnaletica CAI, che
ci condurrà fino alla meta.
Pochi passi, la prima svolta e
ci troviamo fuori dalla civiltà, tra massi erratici e valloncelli scavati da piccoli
corsi d’acqua che di solito si indovinano appena, salvo poi gonfiarsi
all’improvviso dopo poche ore di pioggia e trascinare a valle ogni genere di
detriti. Camminiamo in silenzio, con gli occhi aperti a cogliere i tanti segni
di presenze antiche, sui tronchi dei castagni secolari e sui massi erratici che
paiono portare le effigi di personaggi mitologici. Dopo una ventina di minuti
sbuchiamo all’improvviso su una balconata aperta sulla valle sottostante, dominata
da una grande cappella e da un pennone con il tricolore nazionale; è la capèlä dël Montsciërän, la cappelletta
di Monte Cerano, punto di sosta e di riparo per i pellegrini e segno della
devozione popolare che gli antenati vollero dedicare alla vergine di Caravaggio
e ad alcuni dei santi più conosciuti e venerati in zona, quali san Mauro abate
e san Bonaventura. Gli Alpini in congedo e i frazionisti di Ricciano hanno
provveduto alcuni anni or sono al suo completo restauro, realizzando la fontana
e gli arredi dell’area sosta, e ne curano costantemente la manutenzione.
Da qui in poi si entra…
all’inferno. Nel senso che il sentiero scende nella profonda forra del rio
Inferno fino ad attraversarlo in corrispondenza di una briglia di contenimento
delle acque e con l’ausilio di una passerella recentemente realizzata dalla
sezione CAI di Gravellona con l’aiuto di alcuni ospiti del locale centro di
accoglienza per i rifugiati; ottimo esempio di come persone in genere percepite
come “un peso per la società” possano trasformarsi in una importante risorsa
per la manutenzione del territorio. Prima di arrivare all’attraversamento si
può notare, sul lato a valle del sentiero, on
s-cheuj, uno sperone roccioso che cade a picco sulla forra; percorrendone
la cresta – con la massima prudenza, per favore! – si può godere di un colpo
d’occhio veramente notevole sul sottostante piano del Campone. Se poi ci
rivolge verso monte si può comprendere immediatamente la ragione che ha portato
a scegliere il nome di quei posti.
Eseguito l’attraversamento del
rio e risalite alcune facili roccette il percorso prosegue in falso piano nel
bosco di castagni dove è facile cogliere i segni lasciati dai devastanti
incendi che durante gli anni ’60 hanno più volte percorso questo versante riducendolo
per parecchio tempo a una selva quasi totalmente impercorribile. Occorrono
un’altra ventina di minuti per raggiungere, dopo una breve discesa, i prati
dell’alpe Grandi.
Il luogo è ameno, ma il
ricordo della storia passata lo rende un santuario dedicato alla memoria di
coloro che “...volontari si adunarono, per dignità, non per odio, decisi a
riscattare la vergogna e il terrore del mondo…”[1]
La sera sei giugno 1944 una
pattuglia di patrioti della divisione alpina d’assalto Filippo Maria Beltrami
in trasferimento dall’Ossola al Cusio giunse in questo luogo; stanchi e
affamati quei ragazzi entrarono in una delle baite per riposare, ma commisero
l’imprudenza di accendere il fuoco nel camino per cucinarsi un poco di polenta
e il fumo venne inevitabilmente notato dal presidio tedesco di Gravellona. Il
mattino seguente, alle prime luci, una colonna tedesca salì a Casale e, proprio
percorrendo il nostro itinerario, raggiunse l’alpeggio sorprendendo i
partigiani nel sonno. Seguì un breve combattimento in cui caddero sei di quei
giovani, mentre alcuni altri, benché feriti, riuscirono a fuggire sino a
Pedemonte, dove vennero ospitati e curati dalle famiglie del luogo. La baita
venne incendiata dopo avervi accatastato i corpi dei caduti; i miseri resti
arrivarono in paese il giorno seguente, portati a spalle, nelle gerle, dalle
madri e dalle sorelle e sono tutt’ora tumulati nel cimitero di Casale. Sulla
baita, poi ricostruita, una targa ricorda i loro nomi e dalla cappelletta
devozionale edificata poco oltre l’effige della Vergine veglia sul loro ricordo.
Alle spalle della cappelletta
ritroviamo il sentiero che entra nel bosco e si infila in un valloncello
ombroso che porta l’affascinante nome di valle dei Sette Cavalieri. Pare che
una leggenda, purtroppo dimenticata, narrasse di questi cavalieri arrivati da
chissà dove alla ricerca di chissà cosa; recentemente uno studioso locale ha
ipotizzato la presenza in questi posti di tracce riferibili niente meno che al
Sacro Graal, la mitica coppa in cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il
sangue effuso dal Cristo sulla croce. Leggende, appunto. O no?..
Si sale decisamente ora, per
una rampa non lunga ma faticosa, sino a raggiungere i resti dell’alpe Cottini:
pochi muri diroccati, un abbeveratoio, i ricordi di una vita di lavoro e di
isolamento ormai perduti per sempre. Di nuovo, tra salita leggera e falso piano,
si prosegue sulla fiancata di quella che è ormai l’Ossola inferiore.
Transitiamo su una larga cengia che attraversa un roccione ben esposto e con
larga visuale sulla valle stessa – siamo ora sulla verticale del passaggio a
livello del Campone – tanto da meritarsi l’appellativo di lä lòbbiä, la balconata e raggiungiamo il costolone che sale
diritto fino alla cima del Cerano; svoltiamo questo confine naturale e…
d’improvviso tutto cambia.
Da questa banda non più
ginestre, felci e castagni stentati, ma faggi imponenti sopra il loro
caratteristico, rado sottobosco; silenzio, l’aria austera di un passato
importante: Poco più avanti i ruderi delle baite dell’alpe Hobol, che seppure
abbandonati mostrano evidenti le tracce di un’architettura ben diversa da
quella dei luoghi precedenti. Siamo entrati nella valle del rio San Giovanni -
che dal Massone scende ad attraversare Ornavasso – e ne percorriamo il versante
äl lovadigh, a bacìo, esposto a
settentrione, umido e fresco. E’ territorio walser[2],
questo e lo si nota da tanti piccoli particolari. D’istinto si cammina adagio,
in discesa, cercando di fare il minor rumore possibile, guardandosi attorno con
attenzione, quasi attendendosi di veder comparire un twergi[3]
da sotto il ceppo di uno di quegli alberi secolari.
Il sentiero si trasforma
progressivamente in mulattiera e poi in pista forestale; attraversiamo altri
alpeggi, costeggiamo le famose polveriere della ditta Ripamonti e attraversiamo
il rio su un ponte di pietra. Dall’altra parte troviamo la strada carrozzabile
che da Ornavasso, con mille diramazioni, sale agli alpeggi alti – Scirombei, Cortemezzo, Cortevecchio – posti
proprio sotto le vette dell’Eyehorn e del Massone: Ancora pochi minuti e ci
ritroviamo al santuario del Boden, con la grande chiesa accogliente, il
piazzale erboso con la grande fontana di pietra, la lapide che ricorda i caduti
della divisione partigiana Valtoce, primi fra tutti i suoi comandanti, i fratelli
siciliani Antonio e Alfredo Di Dio.
Una sosta alla vecchia osteria
del santuario - ora trasformata in un confortevole ristorante – è d’obbligo.
Dopo di che pensiamo al ritorno: non resta che scegliere se ripercorrere i
nostri passi oppure scendere a Ornavasso lungo il percorso selciato della Via
Crucis che ci porterà alla Madonna della Guardia, alla parrocchiale di San
Nicola e, infine, alla stazione ferroviaria per prendere il trenino della linea
Novara Domodossola con destinazione Gravellona o Crusinallo.
Se poi qualcuno non fosse
ancora soddisfatto, dal santuario della Guardia potrebbe imboccare, ancora in
direzione nord, la strada sterrata che in una mezzora lo condurrà al forte di
Bara e alle fortificazioni della linea Cadorna; da qui potrà quindi scendere
alla punta di Migiandone lungo la strada militare, fermandosi a leggere i vari
cartelli, posati dal gruppo ANA locale, che raccontano la storia di quella
grande opera. Dal piazzale dei cannoni si potrà infine ritornare al paese lungo
la stradina sterrata che corre proprio all’attacco della parte montana. E
passando per l’incantevole località del Lago delle Rose una sosta “godereccia”
è assolutamente inevitabile… Buon appetito!
Massimo M. Bonini – barbä Bonìn
NB I testi dialettali sono trascritti secondo le regole fonetiche
fissate dalla Consulta Regionale per la Lingua Piemontese e adattate alle
varianti del Verbano Cusio Ossola e Novarese a cura della Compagnia di Pastor in accordo con la Consulta medesima.
[1]
Piero Calamandrei, Lapide a ricordo del sacrificio di Tancredi Duccio Galimberti, Cuneo.
[2]
I walser erano popolazioni originarie dell’alta valle del Rodano, canton
Vallese, da cui il nome di walliser o walser. Tra il tredicesimo e il
quattordicesimo secolo d.C. alcuni loro nuclei familiari vennero mandati a
colonizzare pacificamente le terre alte attorno al monte Rosa e in Formazza,
dove portarono la loro cultura e la loro lingua di ceppo germanico; Ornavasso
costituì la loro colonia più bassa e meridionale.
[3]
I twergi sono componenti del piccolo
popolo nella tradizione walser, dei folletti o degli gnomi; esseri fatati,
spesso dispettosi, a volte maligni, altre portatori di fortuna.
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