Le Storie del Bunin - Ij Stòri 'd barbä Bonìn
esperimenti di scrittura creativa
venerdì 18 giugno 2021
mercoledì 8 gennaio 2020
giovedì 3 gennaio 2019
Passaggio a nord-est
per Alpe Nostra
notiziario del Club Alpino Italiano, sezione di Omegna
settembre 2018
PASSAGGIO A NORD EST
Dall'oratorio di
san Defendente al santuario del Boden, sulle tracce degli antichi pellegrini
Autunno. Giornate più brevi,
temperature miti, il bosco che pian piano inizia ad assumere i colori tenui e
variegati della stagione. Torna il momento adatto per muoverci sulla “montagna
di casa”, per sentieri più domestici e meno battuti. Andiamo quindi, ancora una
volta per la Corcera, ma questa volta in direzione nord est.
Il nostro itinerario parte da
Arzo, la più settentrionale e più alta tra le frazioni di Casale Corte Cerro,
per la precisione dalla piazzetta dell’Ariél, il cui nome dialettale ben
richiama la sua posizione arieggiata e aperta a grandi scorci panoramici. Se
abbiamo la fortuna di una giornata ventosa la vista verso sud ci mostrerà
d’infilata l’intera Corcera e buona parte de lago d’Orta fino a scorgere i
campanili di Pogno e Prerro; di fronte il versante più selvaggio del
Mergozzolo, il piano di Gravellona e Fondotoce, il golfo Borromeo chiuso dai
Pizzoni di Laveno e laggiù, contro l’orizzonte, le cime biancheggianti del
Disgrazia e del Bernina. Poco più a sinistra la cortina severa delle prime
Lepontine - Faiè, Corte Lorenzo, Teisa, Corni di Nibbio, Lesino, Proman –
dietro cui sta adagiato il parco nazionale della Valgrande. Armati di un buon
binocolo ci sarebbe da passarci la giornata.
L’oratorio seicentesco
dedicato a san Defendente – uno dei martiri della legio Tebaica fatta decimare da Diocleziano nel 303 – e a santo
Stefano protomatire, i patroni della frazione, chiude un lato della piazzetta.
Di fronte, alta tra le case antiche del villaggio, si vede svettare la torre
medievale, antica struttura con funzioni difensive e, forse, di avvistamento e segnalazione.
Muovendoci verso sud per qualche centinaio di metri, lungo viuzze che ancora
mostrano l’antico acciottolato, raggiungiamo il rio Gaggiolo, presso il quale
troviamo una cappelletta devozionale dedicata alla Vergine del Boden – in
gremio Matris sedet Sapientia Patris, recita l’inequivocabile cartiglio -
fronteggiata da una ruota da mulino che ci ricorda come l’edificio adiacente
sia stato proprio un mulino da cereali fino a quanto, a fine ‘800, una società
mineraria inglese non arrivò in zona, convinta di trovarvi dei giacimenti
auriferi. In effetti una vena di pirite fu scoperta poco lontano da qui - nella
forra del rio Inferno - e per alcuni mesi se ne tentò la coltivazione, salvo
scoprire che il costo dell’opera non avrebbe mai pareggiato i profitti.
L’impresa fu rapidamente abbandonata, ma in paese rimane il ricordo di quei
mesi in cui c’era un gran movimento di minatori che andavano a cavare il
minerale e di donne che, con le loro gerle, lo trasportavano a spalle fino a
questo mulino per essere macinato. Erano gli anni della grande corsa all’oro -
quella sì, particolarmente proficua – nel sudovest americano e così questa
nostra zona venne scherzosamente denominata “la California”.
Dopo questa piccola deviazione
riprendiamo la direzione prefissata, torniamo verso l’abitato di Arzo e lo
attraversiamo completamente, ammirando le belle case con alcuni evidenti esempi
di architettura medievale, e proseguiamo verso nord est lungo la carrozzabile
che costeggia i prati della località Lagoni, nome che deriva dalla loro
tendenza ad allagarsi nei periodi più piovosi, tanto formare nel tempo una
torbiera o lagozza. In questi terreni, nel 1956, l’archeologo dilettante Felice
Pattaroni compì alcune ricerche scoprendovi i resti di un insediamento
attribuibile all’era neolitica. La strada forma un tornante e proprio al suo
vertice inizia il sentiero, ben percorribile grazie alla segnaletica CAI, che
ci condurrà fino alla meta.
Pochi passi, la prima svolta e
ci troviamo fuori dalla civiltà, tra massi erratici e valloncelli scavati da piccoli
corsi d’acqua che di solito si indovinano appena, salvo poi gonfiarsi
all’improvviso dopo poche ore di pioggia e trascinare a valle ogni genere di
detriti. Camminiamo in silenzio, con gli occhi aperti a cogliere i tanti segni
di presenze antiche, sui tronchi dei castagni secolari e sui massi erratici che
paiono portare le effigi di personaggi mitologici. Dopo una ventina di minuti
sbuchiamo all’improvviso su una balconata aperta sulla valle sottostante, dominata
da una grande cappella e da un pennone con il tricolore nazionale; è la capèlä dël Montsciërän, la cappelletta
di Monte Cerano, punto di sosta e di riparo per i pellegrini e segno della
devozione popolare che gli antenati vollero dedicare alla vergine di Caravaggio
e ad alcuni dei santi più conosciuti e venerati in zona, quali san Mauro abate
e san Bonaventura. Gli Alpini in congedo e i frazionisti di Ricciano hanno
provveduto alcuni anni or sono al suo completo restauro, realizzando la fontana
e gli arredi dell’area sosta, e ne curano costantemente la manutenzione.
Da qui in poi si entra…
all’inferno. Nel senso che il sentiero scende nella profonda forra del rio
Inferno fino ad attraversarlo in corrispondenza di una briglia di contenimento
delle acque e con l’ausilio di una passerella recentemente realizzata dalla
sezione CAI di Gravellona con l’aiuto di alcuni ospiti del locale centro di
accoglienza per i rifugiati; ottimo esempio di come persone in genere percepite
come “un peso per la società” possano trasformarsi in una importante risorsa
per la manutenzione del territorio. Prima di arrivare all’attraversamento si
può notare, sul lato a valle del sentiero, on
s-cheuj, uno sperone roccioso che cade a picco sulla forra; percorrendone
la cresta – con la massima prudenza, per favore! – si può godere di un colpo
d’occhio veramente notevole sul sottostante piano del Campone. Se poi ci
rivolge verso monte si può comprendere immediatamente la ragione che ha portato
a scegliere il nome di quei posti.
Eseguito l’attraversamento del
rio e risalite alcune facili roccette il percorso prosegue in falso piano nel
bosco di castagni dove è facile cogliere i segni lasciati dai devastanti
incendi che durante gli anni ’60 hanno più volte percorso questo versante riducendolo
per parecchio tempo a una selva quasi totalmente impercorribile. Occorrono
un’altra ventina di minuti per raggiungere, dopo una breve discesa, i prati
dell’alpe Grandi.
Il luogo è ameno, ma il
ricordo della storia passata lo rende un santuario dedicato alla memoria di
coloro che “...volontari si adunarono, per dignità, non per odio, decisi a
riscattare la vergogna e il terrore del mondo…”[1]
La sera sei giugno 1944 una
pattuglia di patrioti della divisione alpina d’assalto Filippo Maria Beltrami
in trasferimento dall’Ossola al Cusio giunse in questo luogo; stanchi e
affamati quei ragazzi entrarono in una delle baite per riposare, ma commisero
l’imprudenza di accendere il fuoco nel camino per cucinarsi un poco di polenta
e il fumo venne inevitabilmente notato dal presidio tedesco di Gravellona. Il
mattino seguente, alle prime luci, una colonna tedesca salì a Casale e, proprio
percorrendo il nostro itinerario, raggiunse l’alpeggio sorprendendo i
partigiani nel sonno. Seguì un breve combattimento in cui caddero sei di quei
giovani, mentre alcuni altri, benché feriti, riuscirono a fuggire sino a
Pedemonte, dove vennero ospitati e curati dalle famiglie del luogo. La baita
venne incendiata dopo avervi accatastato i corpi dei caduti; i miseri resti
arrivarono in paese il giorno seguente, portati a spalle, nelle gerle, dalle
madri e dalle sorelle e sono tutt’ora tumulati nel cimitero di Casale. Sulla
baita, poi ricostruita, una targa ricorda i loro nomi e dalla cappelletta
devozionale edificata poco oltre l’effige della Vergine veglia sul loro ricordo.
Alle spalle della cappelletta
ritroviamo il sentiero che entra nel bosco e si infila in un valloncello
ombroso che porta l’affascinante nome di valle dei Sette Cavalieri. Pare che
una leggenda, purtroppo dimenticata, narrasse di questi cavalieri arrivati da
chissà dove alla ricerca di chissà cosa; recentemente uno studioso locale ha
ipotizzato la presenza in questi posti di tracce riferibili niente meno che al
Sacro Graal, la mitica coppa in cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il
sangue effuso dal Cristo sulla croce. Leggende, appunto. O no?..
Si sale decisamente ora, per
una rampa non lunga ma faticosa, sino a raggiungere i resti dell’alpe Cottini:
pochi muri diroccati, un abbeveratoio, i ricordi di una vita di lavoro e di
isolamento ormai perduti per sempre. Di nuovo, tra salita leggera e falso piano,
si prosegue sulla fiancata di quella che è ormai l’Ossola inferiore.
Transitiamo su una larga cengia che attraversa un roccione ben esposto e con
larga visuale sulla valle stessa – siamo ora sulla verticale del passaggio a
livello del Campone – tanto da meritarsi l’appellativo di lä lòbbiä, la balconata e raggiungiamo il costolone che sale
diritto fino alla cima del Cerano; svoltiamo questo confine naturale e…
d’improvviso tutto cambia.
Da questa banda non più
ginestre, felci e castagni stentati, ma faggi imponenti sopra il loro
caratteristico, rado sottobosco; silenzio, l’aria austera di un passato
importante: Poco più avanti i ruderi delle baite dell’alpe Hobol, che seppure
abbandonati mostrano evidenti le tracce di un’architettura ben diversa da
quella dei luoghi precedenti. Siamo entrati nella valle del rio San Giovanni -
che dal Massone scende ad attraversare Ornavasso – e ne percorriamo il versante
äl lovadigh, a bacìo, esposto a
settentrione, umido e fresco. E’ territorio walser[2],
questo e lo si nota da tanti piccoli particolari. D’istinto si cammina adagio,
in discesa, cercando di fare il minor rumore possibile, guardandosi attorno con
attenzione, quasi attendendosi di veder comparire un twergi[3]
da sotto il ceppo di uno di quegli alberi secolari.
Il sentiero si trasforma
progressivamente in mulattiera e poi in pista forestale; attraversiamo altri
alpeggi, costeggiamo le famose polveriere della ditta Ripamonti e attraversiamo
il rio su un ponte di pietra. Dall’altra parte troviamo la strada carrozzabile
che da Ornavasso, con mille diramazioni, sale agli alpeggi alti – Scirombei, Cortemezzo, Cortevecchio – posti
proprio sotto le vette dell’Eyehorn e del Massone: Ancora pochi minuti e ci
ritroviamo al santuario del Boden, con la grande chiesa accogliente, il
piazzale erboso con la grande fontana di pietra, la lapide che ricorda i caduti
della divisione partigiana Valtoce, primi fra tutti i suoi comandanti, i fratelli
siciliani Antonio e Alfredo Di Dio.
Una sosta alla vecchia osteria
del santuario - ora trasformata in un confortevole ristorante – è d’obbligo.
Dopo di che pensiamo al ritorno: non resta che scegliere se ripercorrere i
nostri passi oppure scendere a Ornavasso lungo il percorso selciato della Via
Crucis che ci porterà alla Madonna della Guardia, alla parrocchiale di San
Nicola e, infine, alla stazione ferroviaria per prendere il trenino della linea
Novara Domodossola con destinazione Gravellona o Crusinallo.
Se poi qualcuno non fosse
ancora soddisfatto, dal santuario della Guardia potrebbe imboccare, ancora in
direzione nord, la strada sterrata che in una mezzora lo condurrà al forte di
Bara e alle fortificazioni della linea Cadorna; da qui potrà quindi scendere
alla punta di Migiandone lungo la strada militare, fermandosi a leggere i vari
cartelli, posati dal gruppo ANA locale, che raccontano la storia di quella
grande opera. Dal piazzale dei cannoni si potrà infine ritornare al paese lungo
la stradina sterrata che corre proprio all’attacco della parte montana. E
passando per l’incantevole località del Lago delle Rose una sosta “godereccia”
è assolutamente inevitabile… Buon appetito!
Massimo M. Bonini – barbä Bonìn
NB I testi dialettali sono trascritti secondo le regole fonetiche
fissate dalla Consulta Regionale per la Lingua Piemontese e adattate alle
varianti del Verbano Cusio Ossola e Novarese a cura della Compagnia di Pastor in accordo con la Consulta medesima.
[1]
Piero Calamandrei, Lapide a ricordo del sacrificio di Tancredi Duccio Galimberti, Cuneo.
[2]
I walser erano popolazioni originarie dell’alta valle del Rodano, canton
Vallese, da cui il nome di walliser o walser. Tra il tredicesimo e il
quattordicesimo secolo d.C. alcuni loro nuclei familiari vennero mandati a
colonizzare pacificamente le terre alte attorno al monte Rosa e in Formazza,
dove portarono la loro cultura e la loro lingua di ceppo germanico; Ornavasso
costituì la loro colonia più bassa e meridionale.
[3]
I twergi sono componenti del piccolo
popolo nella tradizione walser, dei folletti o degli gnomi; esseri fatati,
spesso dispettosi, a volte maligni, altre portatori di fortuna.
venerdì 30 dicembre 2016
Fomän, fomän, gh’è scià ‘l mägnän
Fomän, fomän, gh’è scià ‘l
mägnän
Gli antichi mestieri degli
ambulanti
“Dòni, dòni, l’è chi ‘l magnano,
che’l gh’ha veuja de lavoràa
E se gh’ij denter cà argòss de fàa giustàa,
tosann l’è scià ‘l magnan che’l gh’ha veuja de lavoràa”
Sono i primi versi di una
nota canzoncina popolare, diffusa in tutto il territorio lombardo e piemontese,
che abbiamo sentito chissà quante volte, eseguita in mille versioni diverse. Ma
soprattutto sono ‘il gancio’, l’appiglio a cui la memoria si aggrappa per
raccontare una delle tante, piccole storie che da tempo frullano nel cervello.
Sono nato e cresciuto a
Montebuglio – l’antica Buglio, comune autonomo fino alla metà del XIX secolo,
ora frazione di Casale Corte Cerro – e questi ricordi risalgono ai primi anni
’60, in un paesino di circa trecento anime, con le strade completamente acciottolate
e lo ‘stradone’ carrozzabile, verso il capoluogo e il limitrofo territorio
omegnese, pavimentato a ghiaia.
Non era raro, in quei tempi,
sentir risuonare tra i vicoli i richiami di strani personaggi che arrivavano da
lontano a offrire i loro servigi e le loro merci, a movimentare la vita
sonnacchiosa del borgo risvegliando la curiosità delle comari e lo stupore di
noi bambini, che accorrevamo sulla piazzetta a rimirare l’insolito spettacolo.
Ed eccolo lì, lo strano
personaggio. Una volta al mese era il lusciàt,
l’ombrellaio proveniente da Sovazza, che installato sugli scalini esterni della
bottega di alimentari e generi vari estraeva dalla barsèla, la cassetta a spallacci tipica del suo lavoro, gli
attrezzi del mestiere – pinze, cacciaviti, ago e filo – e metteva mano ai
parapioggia raccolti durante il primo giro, al grido di “Ombrellaio, l’è scià l’ombrélé. Dòni, gh’è ‘l lusciàt!”,
sostituendo le stecche rotte e ricucendo i teli. Altre volte era invece il molitä – l’arrotino – a piazzare la sua
macchina a pedali sotto il portico della chiesa per estrarre una pioggia di
scintille luminose da ogni lama che passava e ripassava sulla pietra rotante.
Il materassaio invece veniva
direttamente in casa, su richiesta. Montava il suo curioso macchinario nei cortili,
scuciva e sventrava i materassi imbottiti di lana facendo passare quest’ultima
tra le ganasce dentate in modo da cardarla e renderla nuovamente soffice e
vaporosa. Poi la reinfilava nei sacchi di tela marroncina, a righe bianche, e
collocatili su due cavalletti li ricuciva con mosse rapide e precise,
utilizzando lo spago di canapa e una serie di aghi di dimensioni mostruose.
Strumenti di tortura, nella mia immaginazione, dal momento in cui mia nonna,
per tenermi buono, mi disse: “Se non fai il bravo me ne faccio dare uno e lo
uso per punzecchiarti il…” Ci siamo capiti, no?
Ma il più misterioso e
terrificante era lui, ël mägnän, il
calderaio. Facemmo la sua conoscenza una mattina d’autunno quando, usciti per
recarci a scuola, trovammo la piazza della chiesa quasi completamente occupata
da una specie di tepee indiano, una
di quelle tende che avevamo cominciato a conoscere dai filmetti western
trasmessi dall’unico apparecchio televisivo presente in paese, al circolo
operaio, dove ogni pomeriggio, alle 17 e trenta ci veniva concesso di vedere la
‘Tivù dei ragazzi’. Sotto quei teli si scorgeva il bagliore del fuoco e,
sbirciando dall’apertura d’ingresso, vedemmo un omone accovacciato che rigirava
sulle fiamme una pentola da cui saliva un fumo verdastro e dall’odore pungente.
Sentendosi osservato sollevò il capo e ci fissò con due occhi che a noi
ragazzini parvero tizzoni ardenti, poi esplose in un “Buh!” talmente sonoro che
fuggimmo a gambe levate, inseguiti dallo scroscio della sua risata divertita.
Nel pomeriggio tornammo cautamente a spiarlo; lui sorrise, ci chiamò vicini e
si mise a raccontarci del suo lavoro, dei suoi viaggi e delle tante cose
curiose che girando il mondo aveva imparato, rivelandosi una delle persone più
piacevoli e divertenti che avessimo mai conosciuto. A dispetto di madri e nonne
che ci raccomandavano di starne lontani, perché “Dë col lì gh’è miä dä fidàas!”
Tra i commercianti la figura
più singolare era quella della Lindä däl
fägòt, un donnone – ai miei occhi molto anziana – che viaggiava a piedi
portandosi a tracolla un involto colmo di capi di biancheria che andava offendo
di porta in porta, sempre ben accolta dalle massaie che la aspettavano con
impazienza, segno sicuro dell’ottima qualità della sua merce, robä bonä ch’lä costä pòch. Suo diretto
concorrente era l’Omin däl martis,
tipo molto più al passo con i tempi, visto che arrivava alla guida di un
vecchio e scassato furgoncino 850 Fiat dal quale estraeva telerie, biancheria e
capi d’abbigliamento vari con i quali imbandiva un vero e proprio banchetto
sugli scalini esterni del circolo. E qui prendeva immediatamente corpo il
proverbio secondo cui ‘Tri fomän e on cò
d’aj e ‘l mërcà l’è bèli fàai’…
Un’altra donna arrivava da
Sovazza a vendere miele e burro, portandosi quest’ultimo dentro un secchio
colmo d’acqua per mantenerlo al fresco.
E ancora i fruttivendoli, ij vërduré, che parcheggiavano i loro
furgoni e poi giravano per i ripidi vicoli suonando una caratteristica
trombetta per segnalare il loro arrivo. Era festa quando, ogni tanto,
decidevano di passar quel compito a noi monelli, ricompensandoci poi con
un’arancia – on portigàl – e una manciata di spägnolët.
Da ultimo, come scordare il
mitico Tognìn dij gelati, con il suo
Ape Car attrezzato a frigorifero in cui trovavano posto i contenitori con la
magica mäntècä nei quattro gusti
base: crema, cioccolata, fragola e limone; trenta lire il cono con una pallina,
cinquanta per due. E una omaggio per chi si aggiudicava il campanellino con cui
dare l’avviso del suo arrivo. Una pacchia…
Chiudiamo in gloria: quando
alzavo troppo la voce per farmi dare retta dagli adulti, la solita nonna mi
redarguiva: “Quä ti vosät? Ti mä smëiät
on cätälän” senza mai spiegare chi fosse la persona nominata. Crescendo con
i romanzi di Salgari ero arrivato alla convinzione che si trattasse di un
abitante della Catalogna, uno di quei personaggi finiti chissà come nel mar dei
Caraibi a fare il filibustiere. La leggenda dello spagnolo urlante… Sino a che,
anni dopo, non mi tornò alla memoria il richiamo del Pèp dij Strèsc: “Strascée!
Fomän, gh’è ‘l cätä län” Lo straccivendolo, accidenti!
Massimo M. Bonini – barbä Bonìn
Nota linguistica.
I testi dialettali sono
trascritti secondo le regole fonetiche stabilite dalla Consulta Regionale per
la Lingua Piemontese, adattate alle varianti del Verbano Cusio Ossola e Alto
Novarese dall’associazione Compagnia dij
Pastor di Omegna. Per maggiori informazioni in merito a questi aspetti è
possibile consultare il sito internet compagniadijpastor.blogspot.it
Novembre 2016
per Alpe Nostra, notiziario
del C.A.I. sezione di Omegna
mercoledì 5 marzo 2014
Libro vs. ebook
5 marzo 2014
Leggo
libri da quando ho appreso l’arte della lettura – a sei anni circa, come quasi
tutti. Nella mia vita ho letto libri – e riviste, e giornali e testi vari - di
ogni tipo. Ne ho letti a migliaia e per la maggior parte li ho acquistati,
perché il possesso dell’oggetto, la possibilità di sfogliarlo, toccarlo,
annusarlo è una dei migliori stimoli per la felicità. La mia casa
ne è piena, in ogni angolo, tanto che temo di doverne prima o poi uscire per
lasciar loro lo spazio necessario.
Poi
sono arrivati gli ebook. Li ho scoperti alcuni anni fa navigando nel web. Ho
scoperto il Progetto Manuzio, con la sua immensa biblioteca di classici messi a
disposizione gratuitamente e via via tanti altri siti da cui scaricare libri di
ogni genere con pochi click. Ho scoperto l’ebbrezza di venire a conoscenza di
una certa opera e poterla avere a disposizione subito dopo, oltretutto a prezzi
generalmente molto inferiori all’edizione cartacea, cosa che per un ‘drogato
dalla carta stampata’ quale sono non è di poco conto.
Con
l’acquisto di un tablet ho potuto cominciare a godere la gioia di portarmi
dovunque tutti i libri che mi interessano, di poter saltare dalla lettura di
uno alla consultazione dell’altro senza caricarmi di svariati chilogrammi di carta.
Con uno smartphone ho sempre in tasca il ‘qualcosa da leggere’ che mi permette
di superare indenne i momenti di coda agli sportelli postali, dal medico e in
stazione.
Ma
la carta… E, si, la carta è un’altra cosa!
E
allora qual è il modo migliore per leggere? Entrambe e nessuno dei due, l’uno o
l’altro, secondo la disponibilità di tempo e di spazio, secondo l’umore del
momento e le diverse possibilità di reperimento.
Ormai
acquisto le novità editoriali quasi solo in formato elettronico, sempre che
vengano realizzate, e il resto, in particolare le opere ‘locali’ su carta. E
per ora sono contento così.
lunedì 30 marzo 2009
ICARO E BABELE
Il vecchio e il giovane camminavano adagio lungo la vecchia pista. Salivano a stento, senza fretta, fermandosi spesso ad ammirare il paesaggio.
Era mattina, una luminosa mattina di settembre, piena di promesse e di presagi; promesse di frutti maturi, di raccolti, di feste, presagi di fredde tramontane e neve e gelo… Spirava una brezza sottile che cavava da rami e dai tronchi e dalle rocce una musica incantata, una sinfonia dolce e solenne che si perdeva lontano, mentre i folletti dell’aria e gli gnomi della terra esponevano a fiera i loro tesori, inestimabili, imprendibili: perle di rugiada trasparente, argentei fili di ragno, aurei raggi filtranti.
Il sole era già alto quando giunsero ad una svolta del sentiero da cui lo sguardo poteva spaziare lontano. Sotto di loro il vasto pianoro ancora verdeggiante occhieggiava tra la foschia sottile, andando a morire nel lago, laggiù. Veniva di lontano un biancheggiare misterioso e i bagliori dei ghiacciai foravano la volta serena salendo su, verso spazi infiniti.
- Nonno, c’è una cosa che ancora non conosco. Qual è il nome della pianura, laggiù?
- Te lo dirò, ma ne sarai sorpreso perché questo piano tra i monti porta esso pure il nome di una montagna.
- Non capisco. Come può essere?
- Ascolta. E’ una storia molto vecchia, che mio nonno mi raccontò un giorno come io la racconto ora a te.
Parlo di tempi assai remoti, quando ancora vivevano sulla terra esseri di stirpe divina.
Laggiù, dove vedi quei massi, si alzava una piccola montagna rocciosa, sola, staccata da tutti gli altri monti; ai suoi piedi c’era un piccolo lago e sopra di essa un villaggio di quegli esseri che popolavano tutto il mondo conosciuto. Furono loro ad aprire nei fianchi di quel monte larghe ferite per estrarne un materiale che dovevano ritenere assai prezioso.
Tutto ciò durò molti e molti anni e alla fine non rimase che una grande colonna rocciosa sopra la quale ancora si elevava il villaggio, con i due templi dedicati agli Dei loro padri. L’unico mezzo per uscire dal villaggio era una spirale di stretti gradini tutt’intorno al monolite, ma con il passare del tempo si andavano via via consumando, senza che vi fosse possibilità alcuna di ripararli. Quegli strani esseri, comunque non se ne davano pensiero alcuno e continuavano ad andare su e giù con grandissima agilità.
Erano rimasti gli ultimi rappresentanti della loro razza, tutti gli altri essendo scomparsi in seguito a lotte ciclopiche e fratricide e a grandi catastrofi senza nome.
Un giorno la scala a chiocciola scomparve completamente, ma quelli non se ne preoccuparono più di tanto e continuarono il loro andirivieni senza sosta, su e giù, su e giù… Avevano imparato a volare! Avevano imparato così bene che pareva non facessero altro dall’inizio del mondo. Ma questa fu a loro condanna, perché un giorno il loro orgoglio non ebbe più limiti e vollero raggiungere il cielo. Di fronte a tanta superbia il Signore di tutte le cose s’infuriò terribilmente e scagliò la sua folgore sull’empio villaggio; la terra tremò, il monte si frantumò in mille pezzi che volarono in alto per poi ricadere e riempire il laghetto sottostante e il genio del male, riunite le anime di quegli empii in un grande fuso d’argento, le portò con sé, tra fumo e bagliori di fiamma, negli spazi infiniti, residenza degli spiriti trapassati.
- Nonno, dimmi ancora una cosa. Quegli esseri di cui parli sono gli stessi con cui un tempo vivevano i nostri antenati?
Il sole era alto, ormai; la nebbia si dissolveva e le perle di rugiada rimpicciolivano a vista d’occhio, andando a rifugiarsi nell’impalpabile elemento. Il bagliore dei ghiacciai si faceva sempre più intenso e pareva di udire tutt’intorno il fluire lento e implacabile del tempo.
- Si, figlio mio, loro: gli uomini, che si dicevano figli del Signore di tutte le cose.
Ciò detto presero a scendere, il cucciolo sostenendo il vegliardo che trotterellava sulle zampe malferme, sino a raggiungere il grande e rumoroso accampamento, al limitare della pianura di Mont’Orfano.
Era mattina, una luminosa mattina di settembre, piena di promesse e di presagi; promesse di frutti maturi, di raccolti, di feste, presagi di fredde tramontane e neve e gelo… Spirava una brezza sottile che cavava da rami e dai tronchi e dalle rocce una musica incantata, una sinfonia dolce e solenne che si perdeva lontano, mentre i folletti dell’aria e gli gnomi della terra esponevano a fiera i loro tesori, inestimabili, imprendibili: perle di rugiada trasparente, argentei fili di ragno, aurei raggi filtranti.
Il sole era già alto quando giunsero ad una svolta del sentiero da cui lo sguardo poteva spaziare lontano. Sotto di loro il vasto pianoro ancora verdeggiante occhieggiava tra la foschia sottile, andando a morire nel lago, laggiù. Veniva di lontano un biancheggiare misterioso e i bagliori dei ghiacciai foravano la volta serena salendo su, verso spazi infiniti.
- Nonno, c’è una cosa che ancora non conosco. Qual è il nome della pianura, laggiù?
- Te lo dirò, ma ne sarai sorpreso perché questo piano tra i monti porta esso pure il nome di una montagna.
- Non capisco. Come può essere?
- Ascolta. E’ una storia molto vecchia, che mio nonno mi raccontò un giorno come io la racconto ora a te.
Parlo di tempi assai remoti, quando ancora vivevano sulla terra esseri di stirpe divina.
Laggiù, dove vedi quei massi, si alzava una piccola montagna rocciosa, sola, staccata da tutti gli altri monti; ai suoi piedi c’era un piccolo lago e sopra di essa un villaggio di quegli esseri che popolavano tutto il mondo conosciuto. Furono loro ad aprire nei fianchi di quel monte larghe ferite per estrarne un materiale che dovevano ritenere assai prezioso.
Tutto ciò durò molti e molti anni e alla fine non rimase che una grande colonna rocciosa sopra la quale ancora si elevava il villaggio, con i due templi dedicati agli Dei loro padri. L’unico mezzo per uscire dal villaggio era una spirale di stretti gradini tutt’intorno al monolite, ma con il passare del tempo si andavano via via consumando, senza che vi fosse possibilità alcuna di ripararli. Quegli strani esseri, comunque non se ne davano pensiero alcuno e continuavano ad andare su e giù con grandissima agilità.
Erano rimasti gli ultimi rappresentanti della loro razza, tutti gli altri essendo scomparsi in seguito a lotte ciclopiche e fratricide e a grandi catastrofi senza nome.
Un giorno la scala a chiocciola scomparve completamente, ma quelli non se ne preoccuparono più di tanto e continuarono il loro andirivieni senza sosta, su e giù, su e giù… Avevano imparato a volare! Avevano imparato così bene che pareva non facessero altro dall’inizio del mondo. Ma questa fu a loro condanna, perché un giorno il loro orgoglio non ebbe più limiti e vollero raggiungere il cielo. Di fronte a tanta superbia il Signore di tutte le cose s’infuriò terribilmente e scagliò la sua folgore sull’empio villaggio; la terra tremò, il monte si frantumò in mille pezzi che volarono in alto per poi ricadere e riempire il laghetto sottostante e il genio del male, riunite le anime di quegli empii in un grande fuso d’argento, le portò con sé, tra fumo e bagliori di fiamma, negli spazi infiniti, residenza degli spiriti trapassati.
- Nonno, dimmi ancora una cosa. Quegli esseri di cui parli sono gli stessi con cui un tempo vivevano i nostri antenati?
Il sole era alto, ormai; la nebbia si dissolveva e le perle di rugiada rimpicciolivano a vista d’occhio, andando a rifugiarsi nell’impalpabile elemento. Il bagliore dei ghiacciai si faceva sempre più intenso e pareva di udire tutt’intorno il fluire lento e implacabile del tempo.
- Si, figlio mio, loro: gli uomini, che si dicevano figli del Signore di tutte le cose.
Ciò detto presero a scendere, il cucciolo sostenendo il vegliardo che trotterellava sulle zampe malferme, sino a raggiungere il grande e rumoroso accampamento, al limitare della pianura di Mont’Orfano.
scritto: Settembre 1978
CAPODANNO
Corno Grande di Cavento, 31 Dicembre 1916
Lisa, mia cara
finalmente, dopo tanto tempo, trovo il coraggio di prendere la penna e scriverti queste poche righe.
Fa freddo, quassù, tira un vento gelido che ti passa da parte a parte e la mia mantellina è tutta a brandelli. Però non nevica più, è tornato il sereno e le stelle brillano come i lumi di un presepe. La battaglia è terminata, anche i cecchini non sparano più; i soldati si sono salutati attraverso i reticolati, strana solidarietà di uomini che sino a poco prima avevano tirato gli uni contro gli altri. Anzi, subito dopo il cambio della guardia si è udita chiarissima la voce che augurava: “Bon anno, Italiani!”
- Che sia un anno di pace – ha risposto il capitano Mora.
Lui! che quasi non aveva più voce per tutti gli insulti urlati all’indirizzo dei mitraglieri ungheresi che gli avevano decimato la compagnia, proprio quando erano a pochi metri dal nido, dopo ore di arrampicata su per la parete ghiacciata.
Ma perché sto a raccontarti tutte queste cose, che a te non possono certo interessare?
I miei alpini sono tutti giù, nel rifugio, hanno trovato pane, formaggio e vino e anche una botticina di grappa.
- Scior tenent – mi hanno detto – anca se’l gh’è la goèra, a vòrom finìi l’an come sempar.
Ne ho dislocati di sentinella il minimo indispensabile, ma anche a chi resta fuori non mancherà certo la sua parte. De Giuli., che avrebbe dovuto stare quassù, attento a questa mitragliatrice che mi fa da scrittoio, l’ho spedito via con la mia fiaschetta di cognac; è orribile questo liquore ministeriale; non riesco proprio a mandarlo giù.
Ecco, sta spuntando la luna. E’ fantastico come questi ghiacciai, con tutti i loro speroni sporgenti, cimitero di tanti dei nostri, assumano nelle notti di luna - notti come questa, quando tutto è silenzio e si ode soltanto il richiamo delle vedette e il canto sommesso dei nemici nelle loro trincee – un aspetto fantastico, quasi fiabesco. Ci si aspetterebbe di scorgere la fata Confetto che passa danzando tra i reticolati.
Ti ricordi, Lisa quando insieme andavamo a balletto… in sogno? Quando io, povero studente squattrinato, sperduto nella città, io che vi ero piovuto dal mio paesello, ti portavo con la fantasia a teatro Regio, al bar tabarin, alle feste della società elegante? E sognavamo di essere noi pure ricchi e famosi, oppure misteriosi vendicatori piovuti da chissà dove, come Dantès redivivi, per raddrizzare torti e portare giustizia.
Ti ricordi, Lisa quei giorni che credevamo felici, quando ci pareva di essere davvero importanti, quando ci davamo tanta pena per faccende futili? Ma noi non lo sapevamo, e in questo stava la nostra felicità.
E’ il secondo cambio della guardia, ma qui non verrà nessuno.
- Lassù c’è il tenete, veglierà per tuta la notte. Finché c’è lui, da quel lato siamo al sicuro.
Così, Lisa, come sempre. Ci si ricorda di noi nel momento del pericolo, nel momento del bisogno, per poi dimenticarci, chissà se intenzionalmente, nell’ora del divertimento. Come al tempo degli scioperi, i giorni tristi delle sparatorie e egli arresti, quando farsi trovare nella mia cameretta era molto più pericoloso che rimanere a tramare nell’ombre, ai tavoli dei caffé di via Po, quando due volte la settimana la Benemerita Arma mandava i suoi rappresentanti. Ricordi? Tu preparavi il the per il maresciallo Polenghi, che nonostante tutto il suo zelo non riuscì mai a trovare le sue “pubblicazioni sovversive”, tanto bene riuscivamo a nasconderle in quei pochi metri di spazio.
Che feste, quelle sere! Che brindisi, con vino da due soldi, e le risate, le beffe, le pacche sulle spalle. Ricordi quegli operai che ci chiamavano tutti “compagni”, le loro espressioni giuliva nell’apprendere che le lettere di X… avevano varcato il confine e stavano nelle mie tasche?
Ma tutto finiva lì e la sera seguente, mentre gli amici si divertivano nuovamente con il principe Danilov, noi restavamo ancora una volta soli, tropo orgogliosi della nostra povertà per chiedere qualcosa a chicchessia. Restavamo a passeggiare malinconicamente per i viali del Valentino, ad arrampicarci sino alla vetta dei Cappuccini, componendo versi alla luna per dimenticare la tristezza. Eppure questa è la nostra vita, qui, tra questi ghiacciai come laggiù in città, sempre e dovunque…
Si sente un grido, ogni tanto, laggiù, verso la parete. Qualcuno dei “cadaveri” si è risvegliato, ma diviene sempre più fioco. Non riesco a togliermi dagli occhi l’immagine degli alpini della quarantesima lanciarsi come folli, all’arma bianca contro le mitragliatrici; mi risuonano ancora negli orecchi le bestemmie di Mora. E noi immobili, bloccati oltre il canalone, senza poter fare niente. E domani un’altra compagnia andrà avanti, e un’altra e un’altra ancora, fino a che gli ungheresi avranno polvere e piombo.
Sai, è di questo che ti volevo parlare, quando ho trovato in tasca un pezzetto di lapis… Ti volevo parlare di noi due, di questa vita che alcune volte ci è parsa troppo bella e altre tanto amara. Ma ora che ci sono arrivato, le parole non vogliono venire fuori, o forse non possono perché non ci sono, chissà?..
Ma non importa, Lisa, se le parole giuste non le trovo, non importa se siamo soli quassù a vegliare, perché così deve essere. Non importa se ci dimenticano nell’ora del giubilo e dell’allegria, perché allora saremmo di troppo, perché nostro compito è quello di lottare e soffrire in silenzio, non di sperare e divertirci. Non importa se in prima linea ci mandano solo nell’ora della morte, perché soltanto così questa vita è degna di essere vissuta.
E non importa neppure se tu, a cui parlo da tanto tempo, non sei che un frutto della mia fantasia malata, perché con te, con te soltanto ho passato le ore più belle di questa mia vita.
Sottotenente Massimiliano Bertenghi
anni 24
caduto nell’eroico adempimento del proprio dovere
Corno Grande di Cavento – ghiacciaio dell’Adamello
1° Gennaio 1917
Alle sei del mattino si udirono una breve raffica e due esplosioni.
Era andato solo, con due bombe a mano, a vendicare i caduti della quarantesima compagnia.
scritto: 31 Dicembre 1978
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Informazioni personali
- Massimo M. Bonini - barbä Bonìn
- Casale Corte Cerro, VB, Italy
- Massimo M. Bonini, barbä Bonìn o Max per gli amici, Bonny per i suoi studenti. Classe 1955. Vive a Casale Corte Cerro (VB), tra il lago d’Orta e il lago Maggiore, con una moglie, due figlie e svariate migliaia di libri. Insegnante di materie tecniche presso le scuole superiori di Omegna, libero professionista, giornalista e imbrattacarte volontario. Per hobby studioso del territorio, della sua storia e delle sue tradizioni, di cui ama collezionarne e raccontarne le storie. Da sempre impegnato nel volontariato, soprattutto in campo culturale, ha collaborato con vari enti e associazioni; a Casale ha fondato la biblioteca della Corte di Cerro, il Centro Studi La Corcera e il museo etnografico della Latteria Consorziale Turnaria. È stato amministratore del comune di Casale, della comunità montana Cusio Mottarone, della provincia del Verbano Cusio Ossola, di Ecomuseo Cusius e di diverse associazioni, consorzi e società partecipate. Di sé stesso ama dire, citando Francesco Guccini: “Io, come sempre, faccio quel che posso; domani poi ci penserò, se mai...” Il suo sito internet è www.studiombm.it